Recentemente ho parlato con un infermiere che l’anno scorso si è ammalato di CoViD-19. È uno dei tanti che, senza mai giungere in terapia intensiva, ha comunque attraversato un periodo di sofferenza prolungata, che si è manifestata non solo con sintomi fisici (febbre, tosse, dolori articolari e muscolari, cefalee e spossatezza), ma anche psicologici.
Ricorda come particolarmente allarmanti le difficoltà respiratorie: un continuo senso di oppressione e di fitte al petto e alla schiena, incapacità di respirare a fondo con conseguenti livelli bassi di saturazione dell’ossigeno nel sangue, angosciante percezione di restare a polmoni vuoti e di avere continuamente “fame” d’aria, assenza di fiato anche solo dopo pochi passi o qualche gradino.
Con chiunque abbia parlato informalmente o per lavoro di questa esperienza ormai comune, vista poi la zona particolarmente colpita in cui vivo (Brescia), da oltre un anno in molti vivono un qualche timore e preoccupazione:
- per la propria incolumità e per quella dei propri cari;
- per il mantenimento del proprio lavoro e la possibilità di riuscire a contribuire al sostentamento della propria famiglia;
- per i lutti, a volte multipli, di genitori, parenti, amici;
- per l’impotenza di trovarsi nel peggior periodo storico in Italia dall’ultimo dopoguerra per richiedere cure mediche anche per altre situazioni;
- per tornare alla normalità al più presto se ci si è ammalati.
Guarire dal CoViD-19 è ciò che chiunque si sia infettato o ammalato si augura, ma risultare due volte consecutive negativi al tampone o superare i sintomi acuti dell’infezione potrebbe essere soltanto l’inizio di un lungo percorso di ritorno alla normalità o di adattamento a una nuova condizione fisica, psicologica ed esistenziale.
Un caso recente di Neurocovid
È questo il caso di un medico sulla quarantina che recentemente ho incontrato in studio: si è ammalato a febbraio dall’anno scorso e non è più rientrato al lavoro pur essendo “guarito” dal CoViD-19. L’anno scorso è stato ricoverato per polmonite interstiziale bilaterale, trascorrendo poi alcuni giorni al reparto infettivi. Ha vissuto momenti di difficoltà respiratoria e desaturazione dell’ossigeno anche gravi. Il ricordo di queste esperienze è fonte tuttora di fortissima angoscia. Attualmente sarebbero presenti difficoltà a respirare se compie qualche sforzo, oltre a diversi sintomi fisici (tra cui spossatezza, dolori articolari e muscolari, acufeni) e cognitivi.
Dal punto di vista cognitivo riferiva incapacità di mantenere a lungo l’attenzione, concentrarsi, gestire più compiti o processi mentali contemporaneamente (multitasking). Dal punto di vista della memoria sarebbero comparse dimenticanze di fatti recenti che un tempo non gli capitavano. Non potrebbe più fare affidamento sulla propria capacità di ricordare futuri impegni, appuntamenti e faccende da sbrigare. Tutto ciò contribuirebbe alla sofferta percezione personale di non completo recupero e mancato ripristino dell’efficienza di una volta delle proprie facoltà fisiche e mentali, al punto da non essersi ancora sentito sufficientemente pronto a rientrare al lavoro in ospedale.
Di seguito una sintesi di cosa sappiamo sull’effetto del virus a livello neurocognitivo in base a un recentissimo articolo apparso su Molecular Neurobiology (Bougakov et al., 2021).
CoViD-19: il cervello tra gli organi più colpiti
Sebbene inizialmente sia stata considerata come una infezione strettamente legata alle vie respiratorie, COVID-19 agisce su più organi (polmoni, cuore, sistema vascolare, apparato digerente) compreso il cervello, colpito sia direttamente sia indirettamente.
Il virus SARS-CoV-2 può aggredire l’encefalo direttamente:
a) attraverso le cavità nasali, seguendo poi il nervo olfattivo fino alla corteccia dedicata e altre strutture nel lobo temporale, potenzialmente fino al tronco dell’encefalo (dove ad esempio si trovano centri respiratori). È stato ipotizzato che le gravi crisi respiratorie in alcuni pazienti COVID-19 possano essere, almeno in parte, causata dal virus che infetta i centri respiratori nel midollo allungato;
b) una seconda via di aggressione diretta, detta “ematica”, vede l’attraversamento da parte del virus della barriera emato-encefalica, che solitamente ha la funzione di impedire che sostanze nocive presenti nel sangue raggiungano il cervello.
Covid-19 può colpire il cervello anche indirettamente:
a) provocando un afflusso ridotto e insufficiente di ossigeno al cervello (l'ipossia dovuta a insufficienza respiratoria);
b) innescando meccanismi immunologici fuori controllo che possono aggredire il cervello stesso e provocare varie forme di encefalopatia: danni alla sostanza bianca, o un’anormale coagulazione del sangue favorendo ictus.
CoViD-19: sintomi neurologici
La Federazione Mondiale di Neurologia ha proposto un rilevante corpus di evidenze che suggeriscono come l’infezione da SARS-CoV-2 colpisca il sistema nervoso centrale (SNC), il sistema nervoso periferico (SNP) e i muscoli. Una vasta gamma di sintomi neurologici è stata documentata in un campione di pazienti COVID-19 a Wuhan, Cina e nel resto del mondo:
- la perdita di olfatto e gusto, chiamati ageusia e anosmia oppure la loro riduzione (iposmia e ipogeusia), sono considerati sintomi precoci dell’infezione;
- mialgie (dolori muscolari);
- mal di testa: è tra le manifestazioni neurologiche più comuni di COVID-19. Si tratta, di solito, di una cefalea da moderata a grave nella parte destra e sinistra della testa (bilaterale), con dolore di tipo pulsante o da pressione nelle regioni temporoparietali o periorbitali. È tipicamente caratterizzata da un esordio da “improvviso a graduale” e da una scarsa risposta ad analgesici comuni;
- vertigini;
- acufeni (fischi alle orecchie);
- livello di coscienza alterato;
- atassia (difficoltà o impossibilità di coordinare i propri movimenti);
- convulsioni;
- malattie cerebrovascolari acute (ischemie ed emorragie cerebrali): la coagulazione del sangue è spesso compromessa da CoViD-19, con conseguente ipercoagulazione, che può portare a trombosi arteriose e venose, che causano un’ischemia.
Sequele a lungo termine del CoViD-19
Vi è in aggiunta una sempre maggiore preoccupazione che, per un certo numero di pazienti, vi possa essere un deterioramento cognitivo a lungo termine che perdura ben oltre il recupero dalla malattia acuta, forse in via permanente. Si pensa inoltre che forme gravi dell’infezione possano possano aumentare il rischio di sviluppare in futuro malattie neurodegenerative.
Condizioni come l’ipossia, l’encefalite e l’ictus producono notoriamente un impatto a lungo termine e, persino, un permanente deterioramento neurocognitivo. Quindi, sequele neurocognitive a lungo termine sono prevedibili in una percentuale di pazienti COVID-19 anche dopo la risoluzione della malattia acuta.
È stato evidenziato, in modo aneddotico, che i pazienti COVID-19 che hanno trascorso una quantità significativa di tempo in terapia intensiva, non di rado, vengono dimessi con disturbi cognitivi residui, a volte indicati come “sindrome post-terapia intensiva". I meccanismi sottostanti non sono chiari, ma potrebbe essere associata all’ipossia, nei casi in cui si sia utilizzato il ventilatore meccanico.
La possibilità di cambiamenti neurocognitivi a lungo termine è particolarmente probabile nei pazienti COVID-19 che presentano sintomi neurologici significativi durante la malattia acuta. Pertanto, mette in guardia l’articolo di Bougakov, potremmo presto trovarci di fronte a un numero significativo di pazienti con disturbi neurologici cronici (e persino permanenti) che richiederanno una riabilitazione e che rappresenteranno un “carico” sociale significativo in termini di utilizzo dell’assistenza sanitaria, dei costi e della perdita di produttività. Questo comporterà un aumento dei livelli di ansia, stress e depressione anche in molti pazienti già guariti dall’infezione CoViD-19.
Un’unità Neuro-CoViD-19 dedicata è stata aperta presso l'Ospedale dell'Università degli Studi di Brescia nel Nord Italia. In tale unità i pazienti COVID-19 vengono trattati per ictus, delirio, convulsioni, encefalite e altre complicanze neurologiche.
NeuroCoViD: tornare ad essere come prima
Tornando al paziente medico che, giunto in studio, lamentava una serie di sequele fisiche e soprattutto cognitive post CoViD-19, egli è stato valutato in colloquio e ha superato senza difficoltà una batteria di test volta a indagare le difficoltà riferite.
Quindi è corretto dire che era “guarito”? Che è “tornato come prima”? Non era questa l’esperienza che il paziente aveva di sè, tant’è che non era più rientrato al suo lavoro in ospedale.
Le difficoltà erano vissute dal paziente con perdita del proprio senso di stabilità personale, laddove egli aveva sempre poggiato la propria identità su un’efficienza e scrupolosità che riversava nel lavoro e che attualmente non era più in grado di garantire.
L’orizzonte esistenziale entro il quale si muoveva il paziente appariva, in colloquio, assai chiuso e limitato. Aveva scelto di non avere relazioni fisse né di costruirsi una famiglia. La sua scrupolosità e tendenza alla prestazione avevano ridotto la sua sfera di amicizie e creato difficoltà lavorative con i colleghi. I suoi genitori ormai anziani, che accudiva quotidianamente, non sarebbero vissuti ancora a lungo, togliendogli quell’importante ruolo di cura e affetto sul quale il paziente poggiava.
In sostanza, era soprattutto nell’espletamento scrupoloso delle proprie mansioni professionali che egli dava senso alla propria vita. Qualunque alterazione percepita della capacità di porsi in tale senso con efficienza risultava, come a seguito del Covid-19, in una perdita importante dell’equilibrio personale, vissuta con iperfocalizzazioni sugli stati corporei e mentali, fonte di sofferenza e continuo automonitoraggio del proprio comportamento e percepite limitazioni attuali, che davano luogo a reazioni emotive di tipo depressivo improntate alla tristezza e paura per la perdita e incerto recupero della condizione precedente al Covid-19.
La guarigione e il “ritorno ad essere come prima” non riguardava, in questo caso, soltanto quell’organismo colpito dalla malattia ma, anche, quello specifico individuo (medico) a cui la malattia chiedeva di prendere in mano importanti aspetti della propria vita futura.
Riferimento bibliografico
- Bougakov D., Podell K. e Goldberg E. (2021), Multiple Neuroinvasive Pathways in COVID-19, Molecular neurobiology, 58(2), 564–575.
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